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Il Parco Ranghiasci

Le note qui raccolte sono state stese sulla base dei documenti rinvenuti nella sezione dell’Archivio di Stato di Gubbio, negli Archivi di Stato di Perugia e Pesaro, nell’Archivio del Tribunale di Gubbio, nell’Ufficio delle Imposte dirette di Gubbio e con i documenti della famiglia Ranghiasci.

Il Parco

Per quanto riguarda la parte pubblica della realizzazione del Parco è stata compiuta una specifica ricerca, rintracciando anche le particelle relative agli acquisti compiuti in tempi diversi da Francesco Ranghiasci, per assemblare le aree da destinare poi a verde nonché gli abbattimenti di edifici monumentali ivi esistenti.

Noti soprattutto alla storiografia locale per la loro erudizione e per i loro interessi storico-archeologici, i Ranghiasci meritano un posto di rilievo nel mondo culturale della fine del 1700, periodo in cui nello Stato Pontificio fiorivano molteplici interessi verso l’archeologia.

A Sebastiano, padre di Francesco, si devono numerosi scritti tra i quali uno dedicato al Tempio di Marte Cipro e ai Teatro Romano di Gubbio per il quale chiese il permesso di scavo a Pio Vl. Per questi suoi interessi gli fu offerta dal Papa la direzione dei musei Capitolini, che egli tuttavia rifiutò.

Agli occhi del viaggiatore frettoloso che visita Gubbio si presentano solamente le emergenze medioevali e le presenze simbolo degli edifici trecenteschi e rinascimentali che rendono quasi rarefatte le trasformazioni operate durante lo Stato Pontificio, che pure dominò la città per oltre due secoli dal 1631 al 1860.

Il palazzo e la villa dei Ranghiasci sono invece un esempio significativo delle molteplici modificazioni operate nel periodo. A metà Ottocento a Gubbio non esistevano giardini antichi da prendere come modelli e da poter trasformare. Unica e splendida memoria a proposito è il giardino pensile dei Duchi di Urbino, che Isabella d’Este, in una lettera inviata a Mantova al marito Francesco Gonzaga, decantava come luogo amenissimo adornato da “un giardinetto con una fontana in mezzo de grandissima recreacione”.

All’inizio dell’Ottocento anche questa memoria è ormai sfumata e sopravvivono i piccoli giardini o meglio, gli orti ricchi e semplici contigui ai palazzi, ai quali la nobiltà ogni tanto riserva interventi di restauro e adeguamento al nuovo gusto e alle nuove mode.

Gli echi romani non sono lontani: basti pensare alle architetture ecclesiastiche che dalla ripresa dei motivi borrominiani nella seicentesca chiesa della Madonna del Prato, voluta dal Vescovo Sperelli, daranno ispirazione per le realizzazioni nella capitale. Non un’eco però riferibile al giardino viene a rompere la scansione dei quartieri eugubini iscritti nelle mura cittadine; né a Gubbio, come invece a Urbino, sarà presente un orto botanico.

Cosi il grande giardino dei Ranghiasci viene a costituire, a metà Ottocento, una magistrale innovazione, una passeggiata pittoresca tra la sacra montagna dell’ Ingino e via della Ripa. Questa passeggiata è rimasta a lungo ignota alla popolazione della città, pur se costruita con frammenti delle memorie cittadine in una elaborata disposizione di viali, colonne, edifici e l’immancabile “tempietto”.

Il grande giardino, della cui estensione e conformazione definitiva si ha una chiara visione dal catasto Gregoriano, ha una breve storia che va dal 1831 alla fine del 1849.

L’area verde non è rielaborata su spazi preesistenti, ma nasce, sotto la spinta di una cultura e di un gusto preciso, dalla volontà di ricreare in zone precedentemente occupate da orti e fabbricati un giardino all’inglese, alla maniera di Goethe, con visuali e cannocchiali ottici, che sottolineano un panorama “pittoresco,” spaziando da S. Martino a piazza Grande attraverso la scansione delle torri medioevali tutt’oggi esistenti.

La spinta alla realizzazione del giardino fu data sicuramente dalla moglie inglese di Francesco, Matilde Hobhouse. La Hobhouse era originaria della contea di Bath, figlia di Sir Benjamin e sorella di Lord Broughton. Donna di temperamento, fu amica dello stesso Foscolo che le dedicò le Rime di Petrarca con le parole: “Alla Gentile Giovine Matilde Hobhouse fanciulla”. La Hobhouse sposò a Roma nel 1827 l’allora ventisettenne Francesco e presumibilmente quell’anno si reco per la prima volta a Gubbio in occasione della festa dei Ceri. Il fatto è ricordato dal Lucarelli, storico locale eugubino, per altro attendibile nelle sue citazioni: la Hobhouse si sarebbe trattenuta nella città solamente due giorni per poi ripartire con altre signore, non precisate, alla volta di Firenze, seguita un giorno dopo dallo stesso Francesco. L’arrivo dell’inglese a Gubbio destò una certa curiosità per l’ingente dote che si vociferava arrivasse a 60.000 scudi.

Le tracce della giovane donna si perdono nel 1853. Sappiamo che ebbe tre figli: Edoardo-Latino e Federico-Latino, a lei premorti, e Amelia-Latina che si stabili in Inghilterra dove la madre l’aveva portata sin da bambina. Il Moroni le attribuisce l’ispirazione del grande parco o villa, sul quale si affaccia la parte posteriore del palazzo: NRanghiasci vi ha formato altresì ampia e grandiosa villa ad uso inglese per far cosa gradita alla nobile di lui consorte Matilde Hobhouse di tal nazione”.

I percorsi

Percorrendo il parco dall’ingresso principale, che si affaccia sull’attuale via Gabrielli, il grande giardino, dopo i lavori di recupero si apre al visitatore mostrando le sue iniziali fattezze.

 

Nel primo tratto antecedente il ponte si incontrano in terra due colonne in pietra non meglio collocabili, ma che sicuramente dovevano essere disposte nelle vicinanze dell’accesso dove esisteva, anche secondo quanto raccontano gli ex proprietari, una statua in terracotta, presumibilmente di divinità.

Attraverso il ponte coperto gettato sul Camignano e dalle cui strette finestre si guarda verso la città medioevale che si affaccia sul rio, si giunge ai grandi viali che risalgono il declivio attraverso un gioco ellissoidale di tornanti segnati, quali mete, da colonne sormontate Qriginariamente da capitelli oggi scomparsi.

Le curve sono segnate da sedili in pietra tufacea che caratterizzano con la loro rusticità i muri di contenimento. Sul lato degro, che porta direttamente a via della Ripa, è ancora esistente la casa destinata ai giardinieri.

Guardando verso la città dal muro di cinta, volutamente non coperto da vegetazione, Gubbio si rivela al fruitore dei sentieri nella sua innegabile bellezza.

Dagli spazi lasciati liberi dagli alberi, le quinte arboree accompagnano la vista ora su torri, ora sulla grande facciata della chiesa di San Domenico, ora sul dominante palazzo dei Consoli creando numerosi quadri definiti da cornici vegetali.

Attraverso la serie dei tornanti segnati da piante diverse per creare un effetto sempre nuovo nel verde e che in autunno si colorano di rossi e di gialli contrastanti, si incontra la villetta a due piani, estremamente moderna e confortevole, certo residenza estiva dei signori, ora completamente restituita all’antico splendore.

 

Poco più avanti una fontana in mattoni, una volta abbellita da colonne marmoree, raccoglie le acque che vengono dalle cisterne superiori e le convoglia verso il tornante inferiore, che introduce al luogo più nascosto e privilegiato del giardino. Attraverso due gradini in granito si accede ad una grande aiuola a parterre dominata da un tempietto. Al lato destro troviamo un piccolo edificio, anticamente utilizzato come scuderia, fregiato dallo stemma della famiglia Benveduti, probabilmente ricavato da un’antica torre.

La grande aiuola, oggi completamente recuperata e contornata da una siepe di bosso, contiene al centro della verzura una piccola fontana?cisterna di forma circolare, circondata da una ringhiera novecentesca in ferro battuto completamente rifatta su impostazione della precedente.

La Torre Medioevale

Si giunge poi, in un luogo nascosto da alberi, alla torre medioevale disposta tra due viali.

La torre, come si è ricordato, faceva parte dell’antico complesso della chiesa di San Luca, distrutta dallo stesso Ranghiasci, che aveva preferito lasciare all’interno del parco questa testimonianza di ruinismo più che l’intero edificio.

Ancora oggi la parte terminale della torre si può vedere dalla piazza del mercato che sovrasta l’intera area verde del giardino.

Alla torre si poteva giungere anche attraverso la via carrozzabile, trovandosi in un punto focale del percorso. Nella parte bassa erano state aperte due grandi porte ad arco acuto, mentre nel piccolo atrio interno si presenta ancora oggi, per lo stupore degli ospiti, un grande mascherone classico, dai cui occhi filtra la luce.

Gli ultimi lavori di recupero hanno portato alla luce le opere di adduzione di acqua proveniente dal condotto del Bottaccione. L’accumulo di tale risorsa avveniva in un locale sottostante l’antica torre di altezza pari a mi. 6 da dove avveniva la distribuzione a tutta la città. Attraverso una scala interna si accede al piano superiore, da dove è possibile godere una vista unica sulla città.

La torre diveniva  elemento determinante del giardino, proprio come in altri parchi coevi, quali per esempio quello Torrigiani a Firenze, dove assume una connotazione simbolica anche più complessa.

Niente è lasciato al caso; vicino all’edificio “gotico” sono piantati alberi con chiome espanse. Secondo gli insegnamenti della scuola paesistica inglese l’edificio si raggiungeva attraverso una scandita successione di viali che sottolineavano l’idea del movimento. Questo concetto, com’è noto, risale al Repton, che scrisse sull’argomento tre opere assai importanti: Sketches and Hints on Landscape Gardening (1795), Observations on the Theory and Practice of Gardening (1803), Fragments on the Theory and Practice of Landscape Gardening (1806), poi raccolte nel 1846 in un unico libro.

Tuttavia l’impianto del giardino eugubino è volto, più che a sottolineare pienamente il significato delle composizioni, a cercare effetti immediati anche per superare l’impianto paesistico.

Proseguendo il percorso si sale verso le aree sistemate a orti dove erano coltivati soprattutto olivi e viti. Vi erano naturalmente alberi da frutta, quasi a offrire al visitatore, dopo i piaceri della vista, quelli del gusto e naturalmente del nutrimento, poiché la villa è per sua natura dispensatrice di un duplice piacere edonistico e utilitaristico.

Gli spazi degli orti erano definiti dalle mura cittadine, nonché dal grande “Ridotto” ora completamente recuperato.

Dalla torre si scende verso l’ingresso del parco dalla parte della dimora Ranghiasci. Qui si incontra una fonte in una nicchia, una volta arricchita da una statua in cotto, per poi giungere ai giardini domestici. Da un lato un’arcata in mattoni raccorda il muro di cinta a un tornante.

All’interno del grande percorso, oltre agli edifici segnalati, oggi ancora leggibili, intorno al 1870 vi erano altre emergenze architettoniche, come si apprende dalle Referte 680-726 del 1877 e dove si contano numerose “case dell’ortolano”.

Ci sembra interessante la segnalazione nella particella 1010 di un edificio denominato “coffee house” oggi scomparso. Si può immaginare a tale proposito, una piccola struttura destinata, secondo la moda del tempo, alla consumazione del caffè.

Basti pensare, per più illustri modelli, al noto “Coffee house” dei Giardini del Quirinale.

Con molta probabilità, vista la sistemazione angolare della particella, potrebbe essersi trattato di una piccola terrazza prospiciente via della Ripa da cui godere il panorama medioevale.

Nel parco erano state fatte costruire serre, anche queste scomparse, destinate ad ospitare piante esotiche e fiori.

Morto il Marchese Ranghiasci nel 1877, smembrata l’eredità tra i figli e il fratello Giuseppe anche il giardino iniziò una lenta decadenza. Durante il fascismo fu destinato a colonia elioterapica, la cui sede fu proprio nella villetta principale; le serre, ridotte a docce, andarono successivamente in rovina. I vasi che segnavano i percorsi nei viali scomparvero quasi del tutto.

Nel 1951 il Parco fu ancora sede di un grande Ballo per il “Premio Giornalistico Gubbio” e poi lentamente l’edera e le altre piante infestanti hanno creato l’immagine esemplare di un ruinismo questa volta non concettoso.

Ci piace ricordare la voce della figlia di Francesco, Amelia, che in una lettera inviata dall’Inghilterra rivolgendosi ai parenti in Italia, alla fine dell’Ottocento, chiede quale sia la sorte dell’amato giardino.

L’artificioso giardino, esemplato su tipologie coeve, ha rispecchiato un modello consueto nelle sistemazioni paesistiche della metà dell’Ottocento.

Di questo erano ben consci i contemporanei. Basti citare, a proposito, un brano di Stefano Rossi che, riferendosi espressamente al giardino Ranghiasci, annota: “Ei non badò certo a spese per fare di un ingrato terreno tutto pietroso e dirupato, dove un amenissimo boschetto, dove passeggi serpeggianti ed ombrosi atti alle ruote de cocchi, dove virdario per esotici arbusti e per fiori di ogni stagione, e perfino il torrione del medioevo e le muraglie antiche di cinta della città, vestite dall’ellera sempre verde, rendono più svariata la scena della villa, e le danno quell’aria di romanesco e di guerriero, che pur piace di molto a di nostri agli infarinati di patetica letteratura, o a quelli che amano le drammatiche sensazioni”.

La nascita

E’ documentato che il marchese Ranghiasci, ideatore del Parco, comprò tutta una serie di piccoli appezzamenti adibiti ad orti, mentre l’esistenza del vecchio convento di S. Luca, a cui apparteneva la Torre che è l’unico elemento rimasto dopo che sono stati abbattuti gli edifici annessi, fa pensare che tra gli acquisti fosse presente anche un’area boschiva ex monasteriale, che quasi sicuramente venne del tutto o in parte sfruttata nella risistemazione ottocentesca.

L’aggiunta di elementi estetici e architettonici (Villino, Scuderia, Tempietto, colonne, nicchie) nobilitò l’arredo verde nel suo insieme. Ne venne fuori una antesignana struttura di quella che oggi definiamo parco – campagna, anche se non completamente impostata sui criteri naturalistici oggi dominanti.

La viabilità fu articolata su livelli altimetrici identificabili nelle cinque rampe carrozzabili dei viali che vanno dall’ingresso alla Torre e la oltrepassano. A queste principali va aggiunto un viale pedonale che raccorda il Villino all’ingresso posteriore di Palazzo Ranghiasci. L’assestamento per scopi carrozzabili ebbe come conseguenza la sistemazione anche ambientale, che come risultato portò alla creazione di cinque livelli paesaggistici per buona parte sovrapponibili alle unità costruttive dei viali che venivano attuate man mano che l’impianto procedeva. Per comodità di illustrazione li chiameremo rampe, identificandole con una specie rappresentativa di quel tratto. Solo nel 1857 con la deviazione di via della Ripa e la costruzione del ponte sul torrente Camignano fu realizzata totalmente la filosofia costruttiva dell’insieme che fissava il senso d’entrata da via Gabrielli (quartiere S. Martino). Lo stesso senso che noi seguiremo nella descrizione delle unità forestali presenti.

Il giardino del tempietto

Siamo giunti ormai davanti alla “scuderia” dove il viale si allarga a circoscrivere un’ansa, nel cui spazio interno era strutturato il giardino del Tempietto su cui si affaccia appunto questa costruzione neoclassica.

Il giardino, di forma ellittica, con fontana centrale, è delimitato da una siepe di bosso. Oggi è lasciato a prato, ma un tempo ospitava sicuramente piccole aiuole con bulbose e perenni rifiorenti che lo rendevano piacevole e frivolo.

Le testimonianze parlano di un giardino con fontana zampillante ed aiuole fiorite ai quattro angoli e sulla piccola scarpata a monte la presenza diffusa di “gigli”, di iris azzurri e bianchi.

La Rampa degli Ippocastani

Il viale, arcuando per una trentina di metri raggiunge uno spiazzo che si caratterizza per una colonna romana di granito, collocata su un basamento che la slancia e ne evidenzia la snellezza, posta giusto in asse con la torre di S. Luca. Qui si trova uno dei più maestosi lecci del complesso, che ha una circonferenza di circa 250 cm., e da solo sembra opporsi al peso della montagna che incombe.

Inizia poi la vera rampa degli Ippocastani: la sua alberatura con questa specie è stato sicuramente il primo intervento di sistemazione verde dei viali del Parco. La veduta verso la torre è scenografica e di forte suggestione, sia per il doppio filare di ippocastani che delimitano il viale a monte e a valle, sia per l’altezza considerevole della torre, che pur sbarrando il fondo sembra dare l’effetto di una prosecuzione all’infinito della rampa. La suggestione è aumentata dall’arco a sesto acuto che perfora la torre, simboleggiante quasi un ingresso magico: una specie di porta ermetica che da questo punto di osservazione crea un occhio sull’ignoto. Anche la veduta a ritroso ha un bell’effetto: l’occhio converge sulla colonna che diventa un elemento pagano fronteggiante la torre monasteriale.

Questo tratto di viale appare come una galleria verde: nonostante la sua ombrosità permette però un ampio respiro a chi lo percorre, anticipando l’apertura degli spazi visibili dalla sommità della torre. E’ un viale da gustare e da percorrere molto lentamente lasciandosi sovrastare dal Ridotto sulla sinistra, ma soprattutto dalla successione degli esemplari di ippocastani, che corrono in doppia fila ordinata, tutti con circonferenza del tronco prossima e talora superiore ai 2 metri. Fino alla Torre se ne contano 43. Le dimensioni dei fusti indicano un’età variabile da 140 a 150 anni, coeva cioè alla creazione del parco.

Il viale attraversa la torre per un fornice identico a quello d’entrata, e scende per una cinquantina di metri fino a raggiungere l’uscita di via della Cattedrale. L’area oggi ospita diverse piante di ippocastano, tutte di taglia notevole.

I documenti

Dai documenti esaminati a tutt’oggi si è potuto stabilire due cose certissime: la prima, che gli acquisti riguardanti l’area occupata del parco furono fatti da Ranghiasci dopo il matrimonio con Matilde Hobhouse; la seconda, che il giardino prende esempio da modelli inglesi e neoclassici, con struggenti e pittoresche vedute.

Il Lucarelli rammenta come allo stesso Ranghiasci sia dovuta la sistemazione su più livelli del parco. L’area difatti è disposta in una lunga striscia a rettangolo e degradante, confinante con le antiche mura cittadine a monte e con un muro di contenimento fatto costruire dal proprietario a valle, limitrofo a via della Ripa.

Il conte, già proprietario degli orti dei Galeotti, pur non senza difficoltà, ottiene nel 1831 dal Comune la chiusura di un vicolo retrostante il palazzo sito tra quei terreni che diverranno casi luogo di comunicazione, da ultimo sotterraneo, con il grande parco. Accesso questo rigorosamente privato, contrariamente all’altro che ancora oggi si affaccia sull’attuale via Gabrielli, chiuso da un grande cancello ottocentesco. In quel periodo attraverso una serie di viali ellittici si accedeva al centro del giardino, comodamente seduti su una carrozza dalla quale si poteva ammirare il panorama della città.

Gli acquisti della terra destinata al parco iniziano Cosi il 7 dicembre 1831, quando Ranghiasci compra una piccola vigna con orto senza casa, posta nel quartiere di San Giuliano da Tomaso di Felice; il notaio Antonio Perugini registra acquisti successivi da parte del nobiluomo, avvenuti dal 7 dicembre 1833 fino al 1848.

In particolare è del 1833 l’acquisto dal Seminario di una vigna con casa padronale posta nel quartiere di San Giuliano. Questo atto riveste importanza perché è l’unico in cui compare un esplicito riferimento alla costruzione del parco: “[…] e in area di affermazione al sito acquisito, che vuò ridurlo a deliziosa villa a piacere della sua nobile famiglia”.

Nel 1834, Ranghiasci, acquista addirittura una casa da cielo a terra di più vani con torre e oratorio interno, situata in via della Ripa con “annessi gli orti del medesimo signor Roseti”.

Il 24 maggio è la volta di un piccolo orto di proprietà di Porzia Panichi. li 17 settembre dello stesso anno prende poi una casa e un orto posseduti da Angela Fonti, moglie del marchese Giuseppe Benveduti. Nello stesso anno oltre ad acquistare vari immobili compra il 3 settembre una casa diruta da Francesco Massi Maestro muratore”, sempre in Via degli Orti; il 30 marzo 1835 acquista una casa con orto da Ubaldo Agostinucci, sempre in via della Ripa.

L’8 febbraio del 1836, Ranghiasci diviene proprietario di un fabbricato acquistato dagli eredi Urbani e nel 1838 Angelo e Nazzareno Alessandrini gli vendono una casa in via degli Orti.

Il 19 ottobre dello stesso anno fa un altro acquisto dalla Società Vannucci Baglioni Adami di una casa da cielo a terra tra via del Guanto e via degli Orti. Sempre nel 1838 Maria Fiori gli cede un orto circondato da mura con casa in via della Ripa.

Dal 1838 al 1840 non si registrano presso il notaio Perugini altri acquisti, fino a quando il 22 agosto i fratelli Chiocci gli cedono una casetta con orto, e ancora il 30 luglio 1843 il conte Galeste Beni gli vende un orto con pozzo annesso sempre in via della Ripa. Nel frattempo oltre a comprare terreni, nel 1840 aveva acquistato una casa da cielo a terra in via degli Uffici e l’anno successivo un altro edificio di quattro piani, sito in via degli Uffici, evidentemente al fine di integrare il palazzo.

Dai dati ripresi dal fondo notarile, risulta evidente che i terreni necessari al parco furono comprati in un arco di tempo di dodici anni, durante il quale il marchese e la moglie Matilde ebbero modo di progettare i percorsi chiaramente individuabili nelI’impianto del catasto gregoriano in coincidenza dei grandi viali ellittici disposti nel terreno degradante.

Nel realizzare il parco, Ranghiasci non ebbe scrupolo di abbattere e modificare testimonianze storiche precise, quali per esempio la chiesa di San Luca, di proprietà dei Rosetti già nel catasto Ghelliano. Dalle memorie del fondo Armanni a proposito si legge alla data 1835: “l’al nei mesi di maggio, giugno e luglio di quest’anno è stata demolita gran parte della casa Rosetti (antico monastero di S. Luca) posta sulla strada che dal voltone di Corte conduce alla Ripa e ciò per volontà del Conte Ranghiasci cui Giuseppe Rosetti ha venduto la casa e gli orti per il prezzo di £ 1100”.

In realtà i lavori al parco iniziano tra il settembre e l’ottobre del 1841 come apprendiamo dal sopracitato diario: “[…] è stata demolita la chiesa di S. Luca al pian terreno de la casa Rosetti che era l’antico monastero di S. Luca è stato demolito da cima a fondo meno la torre, che resta ancora in piedi quantunque isolata”. La citazione èimportante poiché, oltre a non lasciare dubbi sul fatto che il conte sacrificava con una certa nonchalance le “memorie patrie” in altri casi energicamente difese, fa capire che è iniziato il programma di sistemazione del parco.

Nel 1842 Ranghiasci diviene Gonfaloniere e Loccatelli, parente del conte, dedicandogli un’orazione, indirizzata peraltro a “Matilde Ranghiasci Brancaleoni nata Hobhouse” rammenta, rivolgendosi al conte, “voi dovete essere il padre di Gubbio antica, siccome lo siete di Gubbio odierna”.

I lavori per la sistemazione del parco continuano sicuramente fino al 1848.

Ci sembra interessante citare certe situazioni, ove, pur non comparendo in prima persona, si capisce come il marchese sia teso a promuovere tutta una serie di richieste per riparazioni alle strade e alle mura limitrofe alla sua estesa proprietà. Alle spese dei lavori prowederà spesso il Comune. A proposito basti citare la relazione del sopralluogo del messo comunale del marzo 1844, il quale sottolinea l’esistenza di una frana di muraglie in via della Ripa e il fatto che dalle mura castellane ogni giorno si distaccano, con grande pericolo, delle pietre smosse dall’acqua e dal gelo.

A distanza di quattro anni l’ingegnere comunale Giovanni Nini chiede che siano saldate le “spese per la riforma del verbale di collaudo relativo alla ricostruzione delle mura castellane presso le vigne del sig. marchese Ranghiasci”. Le citazioni a riguardo potrebbero moltiplicarsi, certo esse rendono evidenti le piccole meschinità del marchese che muove pedine cittadine per sistemare al meglio le sue proprietà.

Il giardino è senz’altro costruito secondo i criteri stabiliti dai trattati alla moda, che forse nel momento della realizzazione sono persino superati. Nel parco, segnato dai grandi viali rotabili e dal verde contrastante degli ippocastani, dei tigli e persino degli acer. campestri, questi ultimi sono sistemati per portare pergole gonfie di uva; vengono adeguate preesistenti costruzioni e inserite vestigia d’antichità, di cui il marchese Ranghiasci doveva divenire conservatore.

Nel verde del giardino sono dislocati edifici neoclassici e si sistemano rovine medioevali, tessute e disposte tra le piante.

Esisteva il presupposto della varietà dei luoghi, raccomandato da molti estensori dei trattati ottocenteschi dei giardini; si doveva, quindi, cercare di utilizzare nel modo più adatto le varie curve di livello, segnandole attraverso culture ed edifici diversi culminanti in un tempietto. Tutti gli episodi architettonici inseriti nel giardino ad eccezione del grande villino in mattoni esemplato sullo schema della facciata del palazzo Ranghiasci, risultano ispirati da modelli antecedenti, largamente superati negli anni Quaranta.

Il Tempietto

In asse è il tempietto posto in una zona sopraelevata. All’edificio si accede attraverso dei gradini definiti da due blocchi di pietra locale, mentre ai lati si notano delle curve di contenimento sempre in pietra.

Nel centro del timpano del tempio è posto lo stemma dei Ranghiasci, inquadrato con quello dei Brancaleoni, circoscritto dal motto: “Virtus omnia vincit”.

L’emblema dimostra come questa architettura sia stata costruita prima dell’investitura di Francesco quale marchese.

Il piccolo edificio, caratterizzato da colonne corinzie, ripropone modelli consueti. Basti pensare a quello del Parco di Monza su disegno del Piermarini o a quello di Villa Pamphili a Roma nonché, per arrivare a esempi più immediatamente e cronologicamente vicini alla costruzione del parco, a quello del Giardino Puccini a Scornio o del Giardino Corsi Scarselli di Firenze.

Tuttavia non va dimenticato che Francesco Ranghiasci si interessò all’archeologia e che prosegui i lavori di scavo, già iniziati dal padre, del Teatro Romano di Gubbio, e che nella sua collezione possedeva numerosi pezzi antichi di un certo interesse tanto che alcuni ne furono acquistati all’asta, nel 1882, dal Ministero della Pubblica Istruzione.

Il tempietto è posto su un piccolo rilievo da cui domina le grandi e spaziose aiuole bordate di bosso. La scelta del luogo mostra come Ranghiasci fosse attento a collocare nei siti adatti le emergenze architettoniche.

Ai tempietti spetta una posizione privilegiata nel contesto dei parchi e cosi è anche in questo caso, dove la testimonianza del potere dinastico della famiglia diviene esplicita attraverso lo stemma della casata disposto all’interno del timpano.

La struttura del tempietto potrebbe essere stata ricavata da sacelli noti all’archeologo Ranghiasci, del quale rimangono inediti ancora molti scritti nell’archivio custodito dagli attuali eredi.

Il Patrimonio verde del Parco

Il Parco Ranghiasci, situato alle falde sud-occidentali del Monte Ingino, svolge funzione di raccordo tra l’ambiente agrario e naturale che è al di là delle mura e l’abitato. Incuneato nel tessuto urbanistico della città, costituisce un’intersezione significativa tra lo spazio verde naturale delle vicine montagne, il centro storico e il verde urbano.

La via degli Orti, oggi Via della Cattedrale, rappresenta la memoria storica della stretta connessione che l’area ha avuto in passato con l’abitato, quando consentiva la sua diretta ed immediata fruibilità con la destinazione primitiva a cereali, ortaggi, olivo e vite.

D’altronde la sistemazione a parco della zona ha finito per mantenere vitale un asse con funzione di collegamento tra la zona “nobile” della città rappresentata dal Duomo e dal Palazzo Ducale e il periferico quartiere di San Martino, rappresentando inoltre un intervento di sistemazione forestale, che ha consentito, almeno in buona parte, la staticità di un’area agricola “intramuraria” esposta a forte dissesto.

La morfologia attuale del Parco è infatti il risultato di una serie di interventi che hanno inciso nel tempo apportando all’area sostanziali modifiche non solo d’uso ma anche di struttura forestale.

La componente vegetale primitiva e autoctona del Parco è difficile da identificare oggi nell’aspetto originario per motivi di sovrapposizione e sostituzione cui è stata sottoposta, anche se può essere estrapolata attraverso l’esame floristico delle zone immediatamente circostanti.

L’area di Gubbio, collocata ai piedi della piccola dorsale calcarea eugubina, e quindi anche il Parco, rientrano in un ambito fitoclimatico submediterraneo che ècaratterizzato da un nutrito gruppo di specie termofile quali frassino, pungitopo, asparago, ciliegio canino, comprese anche quelle sempreverdi quali alaterno, fillirea, ligustro, viburno e, prima di tutte, il leccio.

Il Verde del Parco

Il parco offre subito ottime credenziali forestali mettendo in bella mostra due splendidi tigli situati all’entrata…

benché compressi tra le case svettano fino a sopravvanzare i tetti, mentre due filari di cipressi costituiscono un armonico connubio di raccordo tra città di pietra e città verde e accompagnano al ponte coperto sul torrente Camignano, da cui è possibile avere uno scorcio del tutto particolare sulla città.

La Rampa dei Tigli

La successiva rampa dei Tigli si apre a valle con un bel filare di tigli. Questo impianto molto compatto soprattutto all’inizio, ha prodotto la prima delle quinte scenografiche del parco, molto significativa al momento della fioritura per la ben nota aromaticità dei fiori. Le piante del filare sono quasi tutte centenarie.

Un’antica stele segna la curva di raccordo con la rampa degli Aceri. Già al tornante d’inizio si può apprezzare il rivestimento arboreo della scarpata sinistra, costituito prevalentemente da lecci. La loro funzione è vitale per la conservazione statica di questo settore, che ha pendenza molto accentuata. A piè di scarpata si trova un filare di ippocastani, quanto resta di una fila che in parte si conserva anche più avanti, e che giungeva davanti alla scuderia. Intanto sulla scarpata il leccio si è diradato lasciandosi sostituire dall’acero campestre.

Nel primo tratto a valle il viale è stato mantenuto volutamente “scoperto”, proprio perché la cortina di tigli sottostanti costituisse già un efficace barriera di ombreggiamento e isolamento. A partire dalla metà della rampa, il viale si caratterizza per un bellissimo filare di una dozzina di aceri campestri perfettamente allineati. Si tratta proprio di un vecchio filare di vigna e la stessa tecnica con la quale le piante sono state potate richiama quella classica adottata dai vignaioli per il supporto delle viti. Potrebbero essere stati inseriti nel progetto per ragioni estetiche data la fiammante colorazione giallo?aranciata che gli aceri assumevano in autunno, alla quale si associava la funzione d’arredo dei festoni carichi d’uva.

La Rampa dei Lecci

Accompagnato da alcuni grandi ippocastani, tigli e da un gruppetto di aceri campestri, il viale gira intorno e rasentando il Tempietto, porta alla rampa dei Lecci, che in un centinaio di metri conduce al Villino, cuore pulsante di tutto il Parco.

Ora si entra nella vera e propria lecceta. Lecci di dimensioni anche ragguardevoli sono distribuiti sulla scarpata soprastante da dove risalgono fin verso la Torre. Il carattere disetaneo e il non perfetto allineamento delle piante sono indici della mancanza di uno schema d’impianto. Si tratta quasi sicuramente di lecci relitti già preesistenti sui bordi dei vecchi sentieri di servizio agli orti, scelti, guidati, orientati e in parte anche rinnovati dal Ranghiasci, in modo da costituire suggestiva e funzionale alberatura ai viali e ai sentieri del Parco.

A valle del viale invece fu necessario operare interventi di alberatura che in progressione è costituita da ippocastani, alcuni giovani aceri campestri e altri lecci dell’impianto primitivo.

La rampa, che arriva fino a ridosso delle mura urbiche, oltre il Villino è immersa in una lecceta compatta. Il leccio è qui preponderante con il colore verde cupo del fogliame e la maestosità secolare di alcuni individui. Altri si ritrovano nella scarpata interna del tornante, i più vecchi spostati verso il villino. Si tratta di un vero lembo di lecceta arborea come se ne trovano poche nella zona dell’eugubino, e che costituisce un bell’esempio delle capacità forestali di questa specie quando viene lasciata libera di svilupparsi.

Il tornante è un bell’angolo verde che propone una sosta gradevole. Qui natura e intervento umano sembrano compenetrarsi più che coesistere, giacché le incombenti mura urbiche non offrono nulla di alterante, anzi sembrano attraversare il bosco come se fossero, forse per la vetustà e il colore della pietra, una lama di roccia emergente nel contesto ambientale.

Bosco Sacro

All’interno del Parco fu costruito un altro viale alberato che lo tagliava trasversalmente per collegare a piedi Palazzo Ranghiasci al Villino. In omaggio al bosco monastico di S. Luca lo abbiamo chiamato viale del Bosco sacro. Serviva anche a raggiungere il Tempietto e l’antistante giardino attraverso un sentiero che si immette nel punto che ospita i lecci più antichi, alcuni bicentenari, sotto i quali si gode una bella vista del Palazzo dei Consoli.

In questo punto, a parte qualche acero, frassino e tiglio, di scarsa rilevanza ambientale, caratterizzante è proprio la presenza del gruppo di splendidi lecci, in particolare quelli addossati verso il muro di cinta del parco. Il più maestoso, di 320 centimetri di circonferenza, sovrasta tutti gli altri che hanno pur sempre tronchi di tre metri di circonferenza, denotando un’età ben superiore al periodo di costruzione del parco.

Il bosco monastico mantenne il significato simbolico di bosco sacro come evoluzione culturale del lucus romano, che corrispondeva ad un particolare biotopo caratterizzato da peculiari doti di naturalità, salubrità, posizione, freschezza, mitezza del clima ed esteticità.

I monaci medievali entro le mura dei monasteri ripresero il concetto del bosco sacro come sito dove poter passeggiare, sostare, meditare, dove poter rivivere lo stato eremitico primordiale pur vivendo nella comunità cenobitica.

Sulle spinte riformistiche del Xll secolo nella progettazione dei monasteri il bosco ebbe un ruolo primario: molti cenobi furono edificati in luoghi appartati e laddove era possibile un lembo di bosco veniva sempre incluso o ricreato dentro le mura monastiche.

Sebbene anomalo rispetto alle formazioni forestali naturali perché chiuso e circoscritto da un recinto di pietra, ricalcava comunque, simbolicamente, le ben più ampie foreste esterne e consentiva il diretto contatto del monaco con la natura.

I pianori che rappresentano l’ultimo livello del parco si trovano a sinistra e a destra del Ridotto delle mura, di cui costituiscono parte integrante collegati attraverso una scarpata abitata da alcune essenze arboree, più agricole, tra cui olmi e ciliegi.

A destra del Ridotto, a quota 558 metri si trovava un pianoro, che fino a pochi decenni indietro era destinato ad oliveto e a vigna, tagliato da un viale centrale coperto a pergola.

A sinistra del Ridotto si trova un altro pianoro, anche questo un tempo adibito a coltivo con viti ed olivi, oggi ricollocativi per recuperare la funzione storica del sito, pur in un’ottica diversa di fruizione. Tuttavia sono rimasti esempi della vegetazione arborea spontanea con lecci, frassini, ciliegi selvatici, ciliegi canini, alaterni che qui trovano un habitat ideale, per la posizione aperta e soleggiata. E’ da rimarcare la presenza di un gruppo di roverelle che formano un bel boschetto addossato alle mura.

Sinteticamente nel patrimonio forestale del Parco, tenendo conto delle dinamiche vegetazionali che lo hanno contraddistinto si possono ritrovare:

  • lembi di vegetazione naturale, in sintonia con le potenzialità ecologiche del sito, individuabili nella concomitante presenza di lecci, roverelle, frassini, carpini neri, ciliegi canini, alaterni, viburni;
  • lembi di precedenti destinazioni d’uso, documentate dalla contemporanea presenza di aceri campestri, frassini, olivi, ciliegi, olmi, noccioli e perfino castagni;
  • lembi di flora arborea ornamentale, destinata all’alberatura dei viali o con funzione prettamente decorativa, costituita da ippocastani, tigli, allori, cipressi, più qualche acero riccio e il bosso.

Pertanto si può identificare l’elemento distintivo del Parco proprio in quel particolare alternarsi, per buona parte adottato già come impianto iniziale, di flora rustica, tipica per ambiente fitoclimatico, con altra più ornamentale a funzione soltanto coprente. L’ippocastano e il tiglio, in ultima analisi, sono le sole specie non autoctone con cui è stato fondamentalmente realizzato tutto l’impianto arboreo dei viali.

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Ultimo aggiornamento
09/12/2021